Era oggi, di ormai 34 anni fa.
Mangiavo veloce per correre alle prove dello spettacolo di Carnevale organizzato dalla Parrocchia. Ma quel pomeriggio una nuvola nera e densa mi appesantiva il cuore.
Forse si vedeva anche da fuori perché a un certo punto uno dei miei compagni si avvicina preoccupato e mi chiede “Stai male? Sei così seria e silenziosa” lo ricordo bene perché due giorni dopo mi avrebbe detto… “Ecco perché stavi male martedì…tu te lo sentivi”
Non lo so cosa sentivo, di sicuro qualcosa che non riuscivo a capire.
Mi piaceva stare alle prove. Mi piaceva danzare, guardare gli altri recitare, assaporare i mille profumi di quel piccolo teatrino di Paese.
Il profumo delle tende, delle assi scricchiolanti, dei costumi pronti ad essere indossati, della lacca, dei trucchi.
E adoravo gli applausi che ci facevamo tra di noi, soprattutto quando qualcuno sbagliava. Mi dava gioia persino l’aria impregnata di sudore dietro le quinte strettissime.
Ma quel giorno mi arrivava tutto ovattato, ero come avvolta da uno scuro manto, sottile ma impermeabile al mondo.
Non potevo sapere che nelle 24 ore successive la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Eppure qualcosa me lo stava già raccontando. Come quando senti arrivare la pioggia.
Non è un segnale specifico a farti sentire il suo arrivo, ma tanti piccoli campanelli…l’odore della Terra che la chiama, il vento che la annuncia, le piante che si preparando ad assorbirla.
Così, oggi, posso immaginare che, inconsapevolmente, la bambina che ero si stesse preparando a incontrare la Santa Muerte e che ogni mia cellula tremasse già, sapendo quanto questo incontro sarebbe stato deflagrante e, negli anni, trasformativo.
I ricordi che ho dei giorni successivi sono milioni di frammenti così vividi che sembra di guardare una vecchia pellicola rattoppata, che si interrompe a tratti restituendoci diapositive singhiozzanti di una lontana realtà.
Ricordo l’aria seria degli amici di famiglia che mi vennero a prendere a scuola e che riuscirono solo a dirmi che era successo qualcosa a “Cacao”.
“Che è successo? Sta male?”
“No, adesso sta bene. Ti portiamo da mamma”
Poi il silenzio…un silenzio lunghissimo nel quale cresceva la tensione. Finalmente il viale di casa. Appena imboccato la mia gola si è chiusa. Ambulanza, polizia, macchine che non conoscevo. Mia madre esce, il mascara colato sotto gli occhi gonfi. Mi guarda e mi dice:” ricordalo così come era”. E mi abbraccia tra i singhiozzi.
“Non ti preoccupare mamma, va tutto bene”. E intanto le gambe mi tremavano, le orecchie mi ronzavano, cercavo di capire come fosse successo ma nessuno mi spiegava niente. Sapevo solo che mio fratello era morto.
Poi non so cosa bene cosa abbiamo fatto. Ricordo uno scambio col nostro S. Bernardo, i cui occhi mi sembravano più languidi che mai… “Eppure sembrava una bella giornata Birillo mio…avevo preso due voti bellissimi al compito di geografia e a quello di storia” una carezza alle sue orecchie morbide e alla diapositiva successiva sono sul divano di una casa con altri bambini e mia sorella. Lei non dice una parola è chiusa a riccio nel suo trauma e io non so come avvicinarla perché sto cercando di tenere a bada il mio, mentre tutti parlano e giocano e noi sembriamo crollate sul fondo di un acquario affollato. Arriva il buio e ci riportano a casa. Una casa silenziosa e piena di singhiozzi…ricordo parenti che dormivano da noi, vicine premurose che portavano cibo e termos con bevande calde e noi due nel lettone abbracciate, lei che mi chiede “Ma perché? E ora dove sta?” io che la stringo e sento la mia voce rispondere “Non lo so. Forse nonno si sentiva solo lassù e lo è andato a trovare. Era così bello stare con lui e noi ci siamo state tanto, ora toccava a lui”.
Non lo so da dove siano uscite quelle parole ma so che quello che ho sentito pronunciandole, sopra quell’assordante dolore, è stata profonda gratitudine per quel dono così grande che era stato vivere tre anni insieme a lui. Averlo tenuto in braccio, averlo visto iniziare a camminare e a parlare, essere stati la sua famiglia.
Ogni anno, in un modo diverso e sempre più consapevole, onoro il suo passaggio. Al suo compleanno, il 4 gennaio e al battere della sua dipartita, il 7 febbraio.
Ho rivissuto tante e tante volte la sua storia, che fa parte della mia.
Ho cercato di zittire quel dolore.
Ho provato a conviverci.
Mi sono sforzata di ignorarlo.
Poi ci sono entrata dentro per liberarmene.
Ho lasciato che mi attraversasse come una lama e che mi facesse mancare il respiro per lasciare che non fossi io a morire di dolore ma quel dolore a farmi rinascere.
Perché ero pronta, perché ero diventata madre e volevo sciogliere ogni nodo del passato per non esserne schiava e non incatenare i miei figli ai miei fardelli.
Per essere felice con loro e libera dai miei fantasmi, per abbracciarne il ricordo con gioia.
Sembra così assurdo, lo so. Ma ci sono cose atroci e inaspettate che ci donano strumenti incredibili. Ma non siamo abituati ad onorare quel che c’è.
Siamo sempre alla ricerca di quello che manca o di un colpevole.
E questo ci fa vivere a metà e spesso nemmeno troppo bene, in balia delle paure e del risentimento.
La vita e la morte ci portano lo stesso messaggio. Ci dicono di onorare il presente, un dono di cui essere grati.
Ci ricordano quanto sia prezioso ogni istante e quanto in ogni cosa che accade ci sia un messaggio, una lezione, qualcosa in più di quello che a una occhiata grossolana ci sfugge.
Ci spronano a guardare oltre il visibile, ad abbracciare la nostra paura per arrivare lontano, invece di restare pietrificate a guardarla.
La Vita e la Morte siamo noi, è quella Scintilla Divina che portiamo dentro e che possiamo alimentare e tenere viva prendendoci cura di noi, delle nostre ferite, della nostra forza, del nostro Potere Personale.
Sembra tanto difficile ma è solo il primo passo, quello che non ti porta lontano ma ti toglie da dove ti sei impantanato.
Io mi sono presa per mano e ho iniziato a camminare.
Ho abbracciato la bambina che sono stata e le ho promesso che ci sarei stata ogni giorno per lei. Ho fatto un patto con me e per me. E ho iniziato a rispettarlo e a rinnovarlo ogni giorno.
E così rinasco e mi prendo cura di me.
Di questa e di mille altre ferite guarite e da guarire. Coltivando la capacità di portare l’attenzione sulla generosa abbondanza della vita, sulla gioia, sulla imponderabile ricchezza che è racchiusa in ogni nostro respiro.
Col tempo ho imparato che per coltivare la serenità sta è necessario esercitare la capacità di cogliere il tesoro nascosto nelle sventure. Ogni cosa ha un suo perché, anche se a volte può risultare difficile capirlo. Soprattutto perché spesso quando accade non siamo pronti a vedere, siamo solo storditi.
Ma col tempo possiamo vedere chiaramente i messaggi (che spesso sono anche piuttosto manifesti) ed esercitare questa capacità.
Per essere ogni giorno più felici e seguire il nostro vero proposito di vita, quel filo che ci conduce alla versione migliore di noi e che ci permette di metterla al servizio della Vita, la nostra e quella degli altri.
Coltivate la vostra gioia. A presto.